I Massimo Volume hanno avuto due vite: la prima da paladini del nuovo rock italiano, segnata da quattro album entrati nel mito (Stanze, 1993, Lungo i bordi, 1995, Da qui, 1997, Club Privé, 1999) e conclusasi con lo scioglimento della band nel 2002; la seconda iniziata con la reunion del 2008 e caratterizzata da due album dall’enorme successo di critica (Cattive abitudini, 2010, e Aspettando i barbari, 2013) ai quali da qualche giorno si è aggiunto Il nuotatore, titolo ispirato all’amato scrittore John Cheever. Il nuotatore suona sin dai primi ascolti come disco della maturità della band bolognese ma, allo stesso tempo, si abbandona ad una ruvidezza figlia dell’epoca degli esordi. Senza il supporto alla chitarra di Stefano Pilia, i Massimo Volume sono oggi, per la prima volta nella loro storia, un trio. Sono solo Emidio Clementi, Egle Sommacal e Vittoria Burattini a creare il suono vigoroso e duro di brani come Una voce a Orlando o Nostra signora del caso.
Abbiamo chiacchierato con Emidio Clementi, che del gruppo è bassista, cantante e autore dei testi, e che da oltre vent’anni è impegnato in un parallelo percorso da narratore, culminato lo scorso anno con lo spudorato romanzo L’amante imperfetto.
Come si ricomincia a scrivere dopo essersi denudati in modo impietoso, come hai fatto tu con L’amante imperfetto?
E’ una domanda che non mi sono posto. Per la prima volta ho iniziato a lavorare ai testi con le parti musicali già completate. Dal momento che avevamo già fissato i giorni di studio, la mia unica preoccupazione è stata quella di mettermi sotto a scrivere.
Credo che il cambio di prospettiva imposto dai testi dei Massimo Volume e dal lavoro con la band sia stato in qualche modo d’aiuto, o sbaglio? In altri termini, scrivere un disco dopo L’amante imperfetto è stato un po’ meno difficile di quanto sarebbe stato scrivere un altro romanzo dopo L’amante imperfetto?
Ne sono certo. In generale riesco a scrivere i testi delle canzoni con maggiore leggerezza rispetto a un libro, soprattutto un romanzo. In un disco a sostenermi c’è il ritmo, una precisa atmosfera musicale. E poi servono poche frasi. Quando scrivo narrativa, invece, attorno a me avverto solo un gran silenzio, a volte confortevole, spesso opprimente.
Immagino che tu sia un amante di John Cheever da molto tempo. Come mai proprio ora hai deciso di dedicargli un brano e un disco?
Non so con precisione perché un giorno mi sono messo lì a pensare: ora scrivo una canzone usando la trama de Il nuotatore. Spesso si va a tentoni. Si prova a scavare. A volte non si trova nulla, solo ghiaia e sabbia. Altre volte ci si accorge che qualcosa brilla sotto il fango e si continua a scavare.
Scrivere la title-track è stata un’operazione ad alto rischio, visto che si è trattato di riscrivere uno dei migliori racconti di uno dei migliori scrittori americani di racconti. Mi sembra che tu abbia accettato e vinto la sfida con grande coraggio, affidandoti ad un tono non meno pessimistico di quello di Cheever. Ci sono due versi, in particolare, che mi sembrano riassumere il senso del brano: “quello che non osavo scoprire/ho capito che era peggio di quello che temevo”. Nessun timore reverenziale?
Una volta mi è capitato di intervistare un giovane direttore d’orchestra. Gli ho chiesto se, oltre a dirigere, componesse anche musica sua. Lui, con molta sincerità, mi ha risposto: «come si fa a scrivere musica dopo aver diretto la nona di Mahler?». Il sapere, così come porsi troppe domande attorno a quello che si sta facendo, può essere deleterio. All’atto creativo serve incoscienza. Bisogna illudersi che il mondo non possa fare a meno del nostro sguardo, prezioso come quello di Thomas Mann o di Rilke.
L’impressione generale è che Il nuotatore sia un album di chiaroscuri, c’è uno sguardo poetico sicuramente pessimista ma, allo stesso tempo, ci sono degli spiragli di luce, come per esempio quello che passa attraverso la “crepa nel muro” in Una voce a Orlando, che mi ha ricordato un po’ la “crepa” cantata da Leonard Cohen in Anthem. E’ corretta la mia impressione?
Sì, mi è sempre piaciuta quella frase di Leonard Cohen e ho voluto farla mia, in un contesto diverso. Più in generale a me sembra che accanto allo scuro nel disco ci sia anche un registro ironico. L’ultima notte del mondo e Mia madre & la morte del generale Sanjurjo sono due favole nere, ma che potrebbero far sorridere chi le ascolta.
I punti di partenza per la scrittura dei tuoi testi sono solitamente suggestioni personali. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, però, hai sentito il bisogno di rappresentare il presente, di farlo entrare nella tua narrazione?
Parlo spesso del presente, ma riesco a mettere a fuoco solo fino a una certa distanza. Se provassi a descrivere quello che c’è oltre, la mia scrittura sbiadirebbe.
Nel periodo intercorso tra il precedente disco dei Massimo Volume, Aspettando i barbari, e Il nuotatore è morto Sam Shepard, artista-guida per te. C’è qualche riferimento a lui nel nuovo lavoro?
No, non direttamente, anche se leggere Sam Shepard credo mi abbia segnato per sempre. In ogni caso, un paio di anni fa, con Sorge (progetto di Clementi con Marco Caldera, che ha pubblicato l’album La guerra di domani per l’etichetta La Tempesta nel 2016, ndr), ho musicato un testo tratto da Motel Chronicles. Sapere che non c’è più è triste. Pareva una di quelle persone capaci di invecchiare, ma non di morire.
In Fred, invece, parli di Nietzsche, di te e Nietzsche…
Sì. Mi ha colpito leggere dei suoi soggiorni in Italia. La fragilità della sua condizione fisica in contrasto con la sua incessante attività mentale. Chi lo ha conosciuto lo descrive come una persone molto gentile. Forse non sarebbe stato difficile fermarlo in qualche calle, accompagnarlo per un pezzo di strada, magari offrirgli un pranzo e restare lì ad ascoltarlo parlare di Eraclito o Maupassant.
Amica prudenza e Vedremo domani sono un tentativo di avvicinare una più classica forma-canzone?
A tutti noi piacciono le canzoni, i bei ritornelli. Il problema è che non abbiamo quell’impronta lì. A mio avviso a rendere lo stacco di Amica prudenza un ritornello vero e proprio è stata la voce di Francesca Bono. E’ come se avesse aperto le finestre e fatto entrare un soffio d’aria fresca.
Per la prima volta nella loro storia i Massimo Volume hanno realizzato un album come trio. Ci siete soltanto te, Egle e Vittoria. Quanto il risultato finale è figlio della purezza e dell’essenzialità di un suono creato solo con chitarra, basso e batteria?
In un primo momento avevamo pensato di coinvolgere un nuovo chitarrista in fase di composizione. Poi ci siamo affezionati a quel suono scarno, che usciva fuori durante le prove. Imporsi dei limiti, tecnici o espressivi, ogni tanto aiuta a concentrare la scrittura lì dove serve.
Gli adolescenti e i ventenni di oggi, in generale, sono interessati ad una musica molto diversa dalla vostra. Per la prima volta da molto tempo questa generazione ha ucciso i propri padri (psicoanaliticamente parlando) musicali, ha smesso di venerare i soliti numi tutelari del rock italiano (Massimo Volume compresi), ha creato nuovi idoli e questo, secondo me, è qualcosa di estremamente positivo. Ho un’opinione meno positiva, invece, della musica che questa generazione ha scelto per farsi rappresentare; non ne faccio solo un discorso estetico, ma anche un discorso di messaggio. Che opinione hai in merito?
Io credo che sia stata un’operazione strategicamente molto riuscita. Vent’anni fa i modelli arrivavano dall’estero: suono spigoloso, distorsioni, un certo gusto per la soluzione ardita. Sono stati prodotti molti bei dischi, ma che non hanno inciso più di tanto sui fatturati delle case discografiche. Nessuno di quella scena è riuscito a scalzare i cantautori. La nuova generazione è partita invece proprio dall’esperienza dei cantautori, fino a sostituirsi a loro, con un suono simile, ma più fresco.
E che effetto ti fa sapere che alla maggior parte dei ventenni non interesserà nulla del nuovo album dei Massimo Volume?
Dici? Guarda che anche vent’anni fa, la maggior parte dei giovani ci snobbava. Troppo pesanti, troppo cupi, troppo monocordi. Quei pochi che ci seguivano però sono stati combattivi, hanno retto più a lungo. Forse non c’entra nulla, ma sembra che la grande epoca del Rinascimento italiano all’inizio ruotasse attorno a un pugno di persone. Quanti erano? Quindici? Venti? Trenta? Non credo di più. Non sono così presuntuoso da paragonare noi o il nostro pubblico a loro, ma penso che il presente sia uno spazio temporale troppo limitato per poter dare giudizi. Detto questo, è molto più probabile che, fra trent’anni, nessuno si ricorderà più di noi.
Infine, cosa pensi dell’utilizzo della lingua italiana degli autori di canzoni venuti fuori negli ultimi anni?
Non li conosco abbastanza per potermi esprimere. Sento che c’è molto ‘noi’, molta appartenenza, quando invece quelli della mia generazione sono ancora oggi molto gelosi del proprio ‘io’. A volte, ascoltando i nuovi autori, ho come l’impressione di invitare a cena una bella donna e di vederla arrivare all’appuntamento con uno stuolo di amici dei tempi del liceo.