La “Fedeltà” secondo Marco Missiroli: intervista allo scrittore del momento

La “Fedeltà” secondo Marco Missiroli: intervista allo scrittore del momento
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Dopo il successo di pubblico e critica ottenuto con Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli, 2015), Marco Missiroli è tornato con Fedeltà, romanzo che, attraverso la storia di Carlo e Margherita, immortala impietosamente la precarietà sentimentale ed economica della generazione dei trenta-quarantenni di oggi. Carlo insegna all’università, nonostante sogni di diventare uno scrittore; Margherita lavora in un’agenzia immobiliare, nonostante una laurea in Architettura. Lui perde la testa per Sofia, una giovane studentessa con il talento della narratrice; lei cede alla tentazione di sedurre Andrea, il suo fisioterapista. Sono spaventati e fragili, indecisi ed impotenti, eppure complici: il loro matrimonio, al di là delle infedeltà reali o presunte, resiste.
Abbiamo intervistato Missiroli, che con Fedeltà è candidato al Premio Strega 2019. 

 

Qual è la linea di congiunzione tra Atti osceni e luogo privato e Fedeltà?

Non ho mai pensato Fedeltà come un seguito di Atti osceni in luogo privato e il tempo che è passato tra un libro e l’altro, quattro anni, ha aiutato a creare una separazione tra le due sostanze narrative. C’è però una coincidenza. Quando Fedeltà inizia, i protagonisti Carlo e Margherita hanno trentacinque anni, cioè la stessa età che ha Libero, il protagonista di Atti osceni in luogo privato, alla fine di quel libro. Nella mia testa idealmente e anche inconsciamente è un susseguirsi della formazione di Libero nella formazione dei due nuovi protagonisti attraverso le vicissitudini matrimoniali e le presunte infedeltà. Questo è l’unico legame che ci può essere tra i due romanzi, forse insieme a quello dei libri citati, che però in Fedeltà avviene in minima parte rispetto ad Atti osceni in luogo privato.

Hai scritto Atti osceni in luogo privato, o almeno la sua prima stesura, in un brevissimo arco di tempo, di getto. Per Fedeltà, invece, sei andato molto più lentamente.

Per Fedeltà ho impiegato quattro anni di lavoro. Prima un anno abbondante di studio per quanto riguarda la base degli eventi, per i quali mi sono basato su fatti veri, studiando testimonianze, casi clinici, etc. Poi la stesura di due anni e mezzo, con le difficoltà relative agli scambi di punti di vista, al ‘passaggio di anime’, e quelle per trovare una lingua adattata a ciascun personaggio nel suo quotidiano, una lingua che non doveva essere troppo alta né troppo bassa. Questo mi ha portato a vari tentativi, ci sono stati due blocchi che sono durati abbastanza e durante i quali mi sono fermato. Rispetto ad Atti osceni in luogo privato è tutto un altro libro, è un libro più pensato, un libro che aveva bisogno di più esperienza, sempre però mantenendo una sua naturalezza.

Ray Bradbury sostiene che abbandonarsi al proprio istinto sia il modo migliore per raggiungere la verità. “Più rapidamente scrivi, più onesto sei”, dice. Sei d’accordo?

Io ho provato entrambe le realtà. Se penso a Atti osceni in luogo privato, Bradbury ha detto una cosa giusta. La velocità non ti permette di mettere dei filtri. Fedeltà, con i quattro anni di lavoro e con il pensiero più dilatato, mi ha permesso di fare una struttura e una narrazione al calor bianco, qualcosa che riflettesse successivamente la situazione emotiva dei personaggi. Questo tempo pensato, che diventa certamente controllo di lingua, può portare una sensazione di minor spontaneità, ma in realtà il controllo mi ha portato un riverbero emotivo molto più grosso una volta che ho chiuso il libro, rispetto ad una bruciatura immediata del testo come era in Atti osceni in luogo privato. Sono due forme di scrittura differenti: puoi aspettare quattro anni e fare un libro pensato, valutato, puoi aspettare venti giorni o un mese e fare un libro bradburiano, immediato, l’importante è che in nessuno dei due casi ci sia il senso dell’artificio, del finto.

I protagonisti di Fedeltà sono personaggi che non riescono ad essere ciò che vorrebbero essere. È un po’ il dramma dell’età adulta: riconoscersi nello scarto che separa ciò che sognavamo da ciò che siamo diventati. Carlo, in particolare, mi sembra quello più irrisolto. “E’ un figlio con l’indole della rinuncia”, per dirla con suo padre, mentre per Sofia il lascito del professore “è un freno a mano tirato”. Chi sono, più precisamente, Carlo e Margherita?

Sono figli eterni, figli di una vecchia generazione che li tiene in ostaggio. Non riescono ad essere genitori a loro volta. Non riescono ad essere indipendenti, ad essere ciò che volevano essere per loro stessi. In questo senso, vicino Fedeltà vedo un libro come Doppio sogno di Schnitzler: anche Fedeltà è un valzer di fragilità, proprio perché ognuno dei protagonisti è solo un condizionale, un forse, solo una forma in divenire in questa società che non riesce ad accogliere forme definite. Il loro rincorrersi nasconde la difficoltà e la paura di dire addio alla stagione della giovinezza. Ecco il motivo per cui rimangono malamente giovani, non riuscendo ad entrare in una vita adulta. Fedeltà, per questo, è la fotografia di una generazione, la nostra.

La casa è uno dei temi centrali del romanzo. Credo che tu abbia colto un punto fondamentale dell’essere adulti precari oggi.

La casa è il fulcro di Fedeltà per quanto riguarda i traumi tra le vecchie e le nuove generazioni, per quanto riguarda i contrasti che i giovani hanno con genitori che vorrebbero che fossero rispettate delle aspettative che invece non verranno mai rispettate, perché i tempi sono cambiati. La nuova generazione se ne accorge subito sulla propria pelle, la vecchia generazione non capisce: questo è il grande scontro tra Carlo e suo padre, ma anche tra Margherita e la sua famiglia di origine. La casa di Concordia è 122 metri quadrati che si riempiono con 122 metri quadrati di disillusione; alla fine diventa il luogo dell’anatema, del litigio ed è la propulsione narrativa verso uno scontro con i padri. Quello economico e abitativo è il terreno di battaglia con i vecchi valori che si adattano così male a quest’epoca.

Mi ha colpito molto una frase che fai pronunciare ad Anna, la madre di Margherita: “i loro corpi sapevano stare vicini”. E’ una frase che indica che il matrimonio di Carlo e Margherita è molto più solido di quello che sembra? E che persino i rispettivi tradimenti non sono che delle piccole scosse che non compromettono la stabilità generale?

Esattamente. Come se il corpo fosse la vera bussola di un matrimonio mentre ci sono scossoni, deflagrazioni o rotture momentanee. Quella frase indica che Anna ha capito che, qualsiasi cosa stiano passando, sua figlia e suo genero sono in un’armonia e in un incastro giusti e questo è ciò che fa la differenza. Il corpo, dunque, come baricentro fondamentale e silenzioso. Molto spesso Carlo e Margherita sono una coppia che non comunica, ma i loro corpi non smettono mai di comunicare, anche se in qualche momento sembrano appartenere ad altri.

Tra diverse forme di genitorialità, quella incarnata da Anna è la più bella. Anche rispetto al concetto di fedeltà, Anna è un personaggio chiave, visto il modo in cui riesce a non farsi travolgere quando scopre, dopo la morte del marito, la sua relazione extraconiugale.

Anna è una donna che trova la sua vera identità dopo la morte del marito, che in qualche modo la rende indipendente, quasi con ferocia. È come se fosse una donna che si stacca dalla sua generazione, salta la generazione di Margherita e piomba direttamente in quella dei più giovani, Sofia e Andrea, cercando di capirne ogni angolazione, facendolo in piena libertà, e poi torna nella sua dimensione con un bilancio in tasca. In questa maniera riesce, grazie all’esperienza passata della sua generazione e a tutte le altre che attraversa, ad essere una donna-perno, una donna che bilancia tutte le isterie della nostra epoca con le ipocrisie delle epoche passate. È una donna che riesce ad avere una coscienza superiore e per questo è una madre di tutti.

La fedeltà, non soltanto in ambito sentimentale, non è oggi un concetto del tutto svalutato?

Sì, c’è una svalutazione del concetto di fedeltà così come c’è un’ipertrofia del concetto di infedeltà. E proprio dalla svalutazione del concetto di fedeltà che è nato il romanzo. La fedeltà è uno di quei territori che cambiano moltissimo a seconda delle epoche, una delle parole cosiddette sensibili, che si muovono e sono specchio rivelatore del tempo. Una volta era una questione quasi coatta, una legge da rispettare a tutti i costi per le norme sociali, ora è quasi un concetto che è necessario sfatare per essere al passo con i tempi. La fedeltà è quasi un segno di anacronismo. Quindi fedeltà per me è una parola rivelatoria e mi piaceva che fosse il termometro di questa generazione che cambia giorno dopo giorno, e tante volte in un giorno, proprio perché infedele.

Parlavamo prima dei libri disseminati nel testo, tra questi c’è un romanzo stupendo di Leonard Micheals, Sylvia, che mi sembra abbia un importante peso specifico in Fedeltà.

Dopo Atti osceni in luogo privato mi sono giurato che non avrei più inserito libri all’interno di un romanzo, forse perché la vedevo come una cosa che doveva esaurirsi in quel romanzo lì. Però, mentre scrivevo Fedeltà, ho capito che erano rimaste delle tracce di quel genere di metaletteratura che dovevo però gestire in modo diverso. All’interno di Fedeltà dovevano esserci dei libri che influenzassero non soltanto la psicologia dei personaggi ma il corso della narrazione. Da Suite francese della Némirovsky a Avventure della ragazza cattiva di Vargas Llosa, sono tutti libri che ho inserito in modo naturale, fino ovviamente a Sylvia di Leonard Michaels, che è un libro che si muove su due fronti: la tenerezza per un amore che non si dimentica e l’isteria e la forza di un amore che disturba il tempo. Questa specie di contrasto è ciò che vedevo in Carlo e Sofia, quindi mi sembrava un libro che naturalmente si potesse legare a loro. Alla fine Sylvia è un vero e proprio protagonista della seconda parte del romanzo.

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